martedì 15 luglio 2008

Charming

New Mexico. Forse qualcuno lo ricorderà per via della piccola città di Roswell, patria di uno dei più grandi doni mai elargiti all'umanità. Nossignore, non stiamo parlando di Demi Moore, la quale ivi ebbe i suoi natali, ma del famoso episodio di quando sul suolo di questa cittadina si schiantò quello che il governo americano avrebbe poi confermato essere un "pallone aerostatico", ma che ai più piace ancora considerare come un disco volante lì misteriosamente precipitato, i cui resti - insieme a quelli dei suoi occupanti… – sarebbero ora custoditi nella fantomatica Area 51. Ad ogni modo, pallone o UFO che sia, si tratta di un evento cardine, pregno di fascino, nella storia del paranormale e dell'ufologia, nonché – come già detto – dono per la gioia di ogni sognatore; ma comunque sia, ogni notizia a riguardo è mera speculazione e probabilmente l'unica traccia aliena che mai verrà davvero rinvenuta in New Mexico è da ricercarsi qualche chilometro a sud-est di Roswell, più precisamente ad Alamogordo: nella discarica di questa città è infatti probabilmente ancor oggi possibile ritrovare qualcuna delle cartucce del fallimentare videogioco di E.T. che nell'83 vennero lì smaltite a palate! Per l'Atari, la casa produttrice di tale fiasco, dev'essere stato un colpo decisamente duro - bruciare milioni di dollari in altrettanti milioni di copie di cassettine di silicio rimaste invendute, o peggio, restituite e con malcelata riluttanza rimborsate, solo perché convinti che a puntare sul fascino che il personaggio esercitava in quel periodo, si andasse a colpo sicuro… – un'umiliazione di quelle senza alcuna via di scampo... Qualunque altro sconfitto di ogni tipo, persino un imperatore in esilio, ne sarebbe uscito meno sputtanato: basti per esempio pensare alla buon'anima di Napoleone, che addirittura durante il suo forzato soggiorno sull'Isola d'Elba, anche lì ebbe modo di trovarsi la sua valvola di sfogo, la sua consolazione, grazie all’amorevole supporto della cosiddetta dama Rapallina, la quale diede al sovrano decaduto la possibilità di continuare a professare, anche in un simile contesto di disdetta e di sciagura, la propria versatilità nell’ars amandi… Anche se, a pensarci bene, altro che consolazione, tutto sommato probabilmente è stata proprio quella la volta in cui, il Bonaparte, dev’esserci andato meglio in tutta la sua vita... Voglio dire, ad essere l’amante di un console o di un imperatore – il cui fascino risiede tutto solo nell’essenza stessa della loro carica… – son buone tutte, anzi, viene da chiedersi se il pover’uomo avesse mai conosciuto l’autenticità di un sentimento… Invece, con la dolce Rapallina – che si è tenuta lo sventurato anche quando, o meglio, proprio quando questi attraversava la più grande crisi di sempre e non era niente più di un miserabile decaduto lontano da casa – mi piace credere che colui che non aveva saputo tenersi stretto per più di cento giorni l’amore del suo popolo, fosse finalmente riuscito ad ottenere quello (di valore ancor più inestimabile) della sua donna… Un amore incondizionato. Un amore cieco……O forse l’amore di un cieco. Che a quanto pare, sembrerebbe da considerarsi il bene più prezioso al mondo. Su questo Ray Charles non aveva dubbi: per quanto riguarda la capacità di amare, i non-vedenti – così com’era lui – sono senz’altro avvantaggiati, hanno una marcia in più… La loro sensibilità è acuita, per loro l’Amore è qualcosa di autentico e viscerale, senza la minima possibilità di influenze esterne e suggestioni empiriche: Charles non avrebbe mai notato lo sporco sui vestiti del figlio, o il fango delle sue scarpette, mentre questi gli si sarebbe arrampicato addosso per abbracciarlo, ma avrebbe solo sentito nella sua piccola massa, il peso del suo amore… E poi, signori, chi di noi non ha provato l’annichilente sensazione del fallimento di un amore condizionato? Quante volte abbiamo rifiutato chi ci amava davvero, in quanto consci del fatto che il loro aspetto non era dei migliori e che c’era di meglio in giro; e quante volte, al contrario, ci siamo invece morbosamente aggrappati a chi ci dileggiava e maltrattava, solo perché ormai fisicamente innamorati, del tutto irrimediabilmente prigionieri del loro fascino… Dei loro occhi…
L’esperienza c’insegna: il potere di condizionamento che può esercitare il fascino è un qualcosa dalla portata devastante… Che si tratti di quello di un pezzo di metallo che, schiantatosi nella cittadina americana altrimenti più anonima sulla faccia della Terra (salvando Demi Moore!), è riuscito a catturare l’interesse di milioni di uomini in tutto il mondo, o di quello che le aspettative di un ingente guadagno derivante dallo sfruttamento di un film di successo possono esercitare su una casa produttrice di videogame, o di quello di un uomo di potere su decadute fanciulle dai facili costumi alla volta della loro rivalsa, la distruzione finale sembra essere una meta comune. Per fortuna, per quanto la storia sia ricca di uomini che dell’arte del fascino abbiano fatto la propria condanna, o la loro arma, lo strumento della propria ascesa o distruzione, essa ci parla anche di personaggi super partes, che si sono chiamati fuori da questi schemi così umanamente meschini, che han mangiato la foglia, che sono riusciti a strappare e a vedere oltre il velo della facciata…Se così non fosse, se non si riuscisse a vederla così, tanto varrebbe allora credere sul serio che un simbolo d’umiltà come Gandhi abbia davvero ceduto al fascino di uno showman quale Yogananda…!

Radici sul mare

Vederla ridotta così faceva uno strano effetto, tra lo squallido e il sacro. Perché se n’era andato?!
Non che fosse effettivamente tanto devastata o ridotta a un rudere, ma mostrava evidentemente tutti i segni dell’abbandono: l’abbandono non solo di una vecchia casa, la “vecchia casa al mare”, ma di un intero periodo e modo di vita. Da un lato c’era il rimpianto, la nostalgia per qualcosa lasciato andare, ma che magari sarebbe andato via comunque da sé; d’altra parte sembrava che non se ne fosse davvero andato, ma che fosse rimasto lì in quella casa, tra quelle mura che le avevano fatto da tempio. Perché se n’era andato?!
E quando la vecchia chiave arrugginita fece, un po’ a fatica, scattare la serratura da troppo rimasta inviolata, lasciando spalancare la cigolante porta, lentamente quel tempio vomitò tutti i ricordi e le emozioni che vi erano costipate; l’odore della salsedine - forte e pungente com’era sempre stato – lo pervase e copriva gli altri odori, di chiuso e di muffa, che avrebbero dominato in qualsiasi altra casa lasciata in quello stato. Perché diavolo se n’era andato?!
Quel rozzo e disincantato motociclista rivide di colpo un più giovane e sognante se stesso sdraiato sul suo antico letto con lo sguardo rivolto alla finestra, ad immaginare tutti quei luoghi che in seguito avrebbe visto; rivide i suoi amici delle varie età aggirarsi tra le stanze; li vide posare pupazzi e costruzioni ed iniziare ad armeggiare con chitarre più grandi di loro; vide la bicicletta su cui aveva imparato a viaggiare; la vide svanire nel boato di un’ Harley; ricordò i pomeriggi in compagnia delle videocassette di Walt Disney: incredibile come alla vista del cattivo di turno, riuscisse tanto agilmente a nascondersi sotto quel tavolo ora così piccolo!Si avviò verso la terrazza e sentì il rumore del mare provenire dalla spiaggia di sotto: buffo come quello che ora, dopo aver udito l’urlo dell’Oceano, gli sembrava solo un bisbiglio, un tempo fosse stato tutto il suo mondo; disegni e frasi infantili sbucavano dalle inumidite pagine dei diari e, inquietantemente, alcuni gli parve avessero più anima di quanto avrebbe poi pubblicato da grande.
Un ultimo pensiero: quanti amori erano passati tra quelle mura! Lo scambio di un fiore, l’attesa di un messaggio, lo strazio dell’abbandono, la passione più sfrenata, il senso della delusione…
Ma dell’amore vero non c’era traccia. Di colpo ricordò perché se n’era andato.
Quella casa non recava ricordo della sua prima pubblicazione. E del successo che venne poi. Ecco perché.
Per ottenere quelle cose, per coronare i sogni nati tra quelle pareti, aveva tuttavia dovuto incamminarsi e andare a cercarle altrove. Ora che le aveva trovate, tornava in Harley ad omaggiare quel vecchio mausoleo al tempo che fu.
E’ vero. Si sentiva tradito, perché in quel luogo aveva riposto tutto se stesso e tutta la sua fiducia e si era accorto tardi che aveva invece ben poco da offrire e che l’aveva ingannato. Ma non aveva potuto evitare di tornarvi.
Dopo tanto tempo, dall’alto dell’enorme pianta che era diventato, aveva finalmente trovato il coraggio di chinarsi a contemplare per un attimo le radici che avevano dato il via al tutto…

venerdì 4 luglio 2008

Via Casa Rotta

Ogni giorno, per tutti questi anni, lo stesso tratto di strada. Ormai non dovrebbe farmi più alcun effetto, eppure ancora oggi, tutte le volte – nel mio continuo andirivieni – che passo per di lì, sono emozionanti come la prima… Anche se in modo diverso: il fascino per quel luogo sconosciuto, che più tardi avrei imparato a chiamare casa, è stato poi, al contrario, sostituito dall’evocatività di un continuo flusso di ricordi: ogni pietra, ogni filo d’erba, ogni muro di quella strada è stato testimone di qualcosa; e questo l’ha reso degno di una certa intimità e familiarità.A cominciare da ciascun gradino. Infatti, è già quando sto semplicemente scendendo le scale di casa, che i primi ricordi mi saltano addosso: ricordi di quanti – amici, parenti, cani ed un gatto – negli anni sono anch’essi passati per quelle scale; scalini come quelli di una volta, ciascuno alto come due di qualunque altro condominio; ricordo quante volte, all’inizio, ho temuto di non farcela, aggrappato alla ringhiera per paura di cadere; e quante volte poi – una volta tanto agile ed abituato da farli a due a due! – avrei invece dovuto esser io a tranquillizzare qualcun altro che neanche lui sarebbe caduto…Portandomi con un balzo dall’ultimo gradino alla terrazza, il carosello prosegue. Davanti a me, due figure mitologiche della mia vita: una mountain bike in ottimo stato – la precedente me l’ha portata via il peso di una gru… – ed una carcassa di motorino; buffo pensare come quella bici scintillante rappresenti in realtà solo un vecchio passo delle mia vita, mentre invece il nobile destriero con cui abitualmente mi muovo, sia quel vecchio scooter giallo e sferragliante, che alla fine di ogni giro mi costringe ad accertarmi che tutti i pezzi – quelli essenziali, almeno – siano ancora al loro posto.La mano, o meglio, il piede del padrone fa il suo lavoro: con un ritmo soltanto a me noto, inizio a prendere a calci il pedale di avvio, come un batterista che dia alla band il tempo per il prossimo pezzo. One…Two… One, two, three, four... Il motorino mi risponde, attaccando con il suo gassoso assolo. Il cortile si riempie di una coltre nera, dalla quale lo scooter ed io insceniamo un’uscita alla Lorenzo Lamas quando sbuca fuori dalla nebbia all’inizio della sigla di Renegade.Pochi metri e sono alla discesina – anch’essa in effetti, una chimera alquanto mitologica… – che immette alla strada: mentre, sfruttando il peso del mezzo, mi ci lascio scivolare sopra, penso infatti che anche quello, del resto, è un luogo pregno di ricordi. Ricordi dolorosi……Ricordi di quando quel dannato scivolo – sempre dissestato, accidenti a lui! – mi costò una bella distorsione alla caviglia, proprio il primo giorno sufficientemente caldo da farmi smettere i miei fidi – e protettivi – stivali, in favore di un paio di Nike ben più fresche, ma anche così dannatamente leggere, così sottili, da non riuscirci più a camminare!Ricordi di quando invece tentai di affrontarlo in salita con la mia bici e quella bastarda mi si bloccò proprio a metà, facendomi cadere sotto il peso di un’involontaria impennata.Ricordi di quando, in cima ad esso, i miei amici videro un minaccioso cane che li puntava: se solo mi avessero lasciato spiegare che quel cane lo conoscevo e che era tutto a posto, invece di lanciarsi in una matta corsa che gli valse solo di venire effettivamente inseguiti…!Ricordi che ad evocarli tutti, il tempo di percorrerla, quella discesina, non basta; ed infatti, eccomi già in strada, di fronte al muro di casa dell’amico Gianni. Chissà se porta ancora addosso i segni di quella volta che – ancora poco pratico – mi ci schiantai contro con la bici…
…Contro il muro, non contro Gianni!
Per fortuna quei tempi pericolosi – per chi mi stava intorno – in cui andare sulle due ruote era per me ancora un’avventura nuova e misteriosa, erano finiti. Proprio lì, in quegli stessi e pochi metri di strada in cui erano iniziati… A questo penso ogni volta che passo di fronte ad una macchina – da sempre, perennemente parcheggiata lì – malconcia già da prima di divenire, in passato, la vittima prediletta della mia inesperienza ciclistica.
…Ogni giorno, per tutti questi anni, lo stesso tratto di strada. Ormai non dovrebbe farmi più alcun effetto… Eppure qualche volta, ancora succede qualcosa di nuovo, mentre io scopro un’altrettanto nuova – ma non per questo, per forza piacevole… – sensazione: come se su di un intenso mosaico, della cui immutabilità credevo di essere totalmente certo ed alla quale ero abituato, fosse venuto meno un tassello, un dettaglio piccolo, ma la cui stonatura risalta subito al mio occhio assuefatto alla perfezione. Oggi, passando sotto quella finestra, la vedo per la prima volta chiusa, e per la prima volta, passandoci sotto, non rallento, perché non vi è nessuno affacciato da salutare.Al suo funerale, sentivo sì, che qualcosa di triste era successo, ma l’esistenza su questa Terra, si sa, segue i suoi cicli ed io non credevo che la morte di un vecchietto di paese potesse aver troppa presa sulla mia giovane vita di vacanziero dalla città, isolano dell’estate e dei fine settimana.E’ stato invece solo quando sono passato sotto quella finestra chiusa che mi sono reso conto dell’effettiva perdita e ho messo a fuoco che, nonostante la serenità poi ritrovata, quella via non sarebbe stata più la stessa. Come se fosse rimasta orfana del suo Santo patrono, del suo protettore; di nuovo, una figura mitologica, che – metà uomo e metà finestra… – dall’alto del suo regno vegliava sulle vite di noi passanti, rivolgendoci un sorriso, un saluto, una previsione del tempo – pregna di quella tipica consapevolezza, saggezza di paese, dettata da un’esperienza che sa di mare o di montagna… – e, quando riusciva a leggere dentro di noi i nostri malesseri, magari anche prima che fossero chiari a noi stessi, la giusta parola di conforto.Ma ora basta, la mia giovane mente s’è soffermata anche troppo su questo genere di pensieri e poi, devo concentrarmi sulla guida del “bolide”. Lo Scarabeo giallo richiama la mia attenzione con un CLANG che parte dal cavalletto ed io mi rendo conto che la strada è quasi finita e che presto dovrò svoltare. Metto la freccia – anche se sto solo io e so che non serve, ma preferisco tenerla come buon’abitudine… – e controllo che da sinistra non salga nessuno. Ancora una volta, ma con una nuova emozione nel cuore, esco con una manovra trita e consumata da quella via dal nome strano – che suona come qualcosa del tipo “Casa”… “CasaRotta”… Riferendosi, qualcuno mi ha detto, alla fatiscente abitazione di una strega che viveva lì… – ma che io ormai, chiamo semplicemente casa

Hello! Hurray!

Salve! Urrà!”. Che lo spettacolo inizi. Io sono pronto.Qualcuno potrà credere che per uno come me, che sono quarat’anni che si esibisce, uno spettacolo valga l’altro e che sia ormai solo una questione di mestiere, di routine.“Non posso avere un mestiere perché non ho una macchina…”.
Ma non è così. Non si tratta di un lavoro come un altro; quando salgo su di un palco sono ben consapevole di non essere un operaio che va in fabbrica a fare la stessa cosa per otto ore di fila, o un conducente d’autobus che si appresta a percorrere per l’ennesima volta il solito tragitto, e nemmeno uno showman televisivo che va in studio a registrare il suo bell’episodio di trasmissione per poi non pensarci più fino alla settimana prossima.“E come fredde macchine marciamo avanti, avanti, avanti e avanti…”.Nossignore, non è la stessa cosa: ogni singolo concerto è un evento a sé stante, unico ed irripetibile.
Perché so bene di aver sempre a che fare con persone diverse – “Benvenuti nel mio incubo…” – e che, per quante volte io possa essermi già trovato sul palco, sotto di esso troverò sempre qualcuno per cui sia invece la prima (o al massimo la seconda!) e che per quelle persone venute lì per me, per cantare insieme le nostre canzoni, quel ricordo sarà comunque indelebile… E se proprio dev’essere così, tanto vale allora che io faccia del mio meglio affinché sia pure piacevole, dato che se lo porteranno dietro a vita!“Io posso rendere reale qualunque vostro sogno…”.
E poi, a dirla tutta, non è solo per i miei fan che m’impegno a rendere uniche le loro serate con me… Anzi, a dire il vero, non sono nemmeno certo di poter effettivamente parlare di “impegno”… Tutto sommato, la verità è che mi viene naturale vivere sul serio ciascun live… Dopotutto, è anche una questione grammaticale, immagino…! Voglio dire… Oltre la maschera, oltre il trucco che ricopre il mio volto, c’è solo un uomo che canta le sue canzoni… “Qualunque maschera può rompersi…”.E quelle canzoni sono state scritte in particolari momenti della mia vita; ciascuna rievoca le sensazioni e le immagini, l’emozioni e le idee di qualche preciso periodo… Cantarle così di seguito così come avviene ad un concerto, è quindi anche un modo per ritirare fuori, per rivivere quei periodi… E metterli a confronto con il come mi sento in quel momento… Può capitare che in due serate diverse possa trovarmi a cantare lo stesso pezzo… E la prima volta pensare: “Dio! Ma che diavolo mi passava per la testa quando ho scritto questa roba!?”… Poi però magari la seconda volta sto meglio con me stesso, ho recuperato lo spirito di quei tempi e mi ritrovo a compiacermi: “Sissignore! Questo è senz’altro il brano migliore che abbia mai fatto!”.
In sostanza, quello che voglio dire è che non potrò mai finire col considerare l’esibirmi come un servizio d’ufficio, perché ogni volta che mi trovo a cantare, mi scopro a sentirmi parte integrante di quel preciso evento e di un’emozione unica.…Prendiamo per esempio… Questa sera stessa! Sono qui che canto per un pubblico giovane, che vuole solo il me più recente, ed è quello che stanno avendo.“E’ proprio un mondo brutale…”.Testi duri e musica incazzata. Così sia. Soddisfo la loro rabbia, la loro sete di casino.
Ma presto, li deluderò di brutto. Perché farò una cosa per me.
Certo, gli darò un duro colpo, li vedrò un po’ persi, un po’ disorientati per via del cambio di solfa, ma in verità non me ne importa poi più di tanto. Se sono davvero miei fan apprezzeranno anche questo, mentre per quello che mi riguarda, adesso c’è solo una cosa che conta…
Mio figlio è qui che mi ascolta. So che questa è davvero una pessima serata per lui, la ragazza l’ha mollato ed ora lui è distrutto. Ed è per questo che è qui…E’ qui perché sa che io potrei fare qualcosa per lui...
E’ qui perché sa che su questo palco, non c’è l’acclamata rock star di sempre, ma solo un padre che vede suo figlio soffrire e che sa come tirarlo su; sa cosa vuole sentirsi dire.Lo sa perché ci è gia passato prima di lui… A suo tempo…
Mio figlio è qui perché tacitamente mi ha fatto una richiesta: ed io so cosa cantare…“Forse potrei perdere la ragione; forse potrei perdere la testa… Ma una cosa non la farò mai: ingoiare il mio orgoglio tornando strisciando da te…”.Una lacrima segna una riga, sciogliendo il trucco da zombie, sul volto di una rock star…

Tribute to Alice Cooper

Cocaina di grano tenero TIPO 00

“Onestamente mi sembra eccessivo tutto questo sbattersi per un po’ di farina”...“Se sia eccessivo o meno, lo lasci decidere a noi, Doc…”.
Andavano avanti così già da un paio d’ore, i due uomini in quell’asettica sala da interrogatorio del dodicesimo distretto. Sarebbe stata una scena alquanto comune da vedersi tra quelle parerti, se non fosse stato per alcuni rilevanti particolari: l’interrogato non era infatti l’ennesimo delinquentello di quartiere pizzicato mentre tentava di forzare lo sportello di un’auto, bensì l’esimio dottor Lawrence – per qualcuno “Larry”… – Moore, gastroenterologo specializzato, mentre lo sbirro che lo teneva sotto torchio era per l’appunto uno dei suoi più assidui pazienti, per via delle ulcere che da alcuni mesi lo tormentavano…
“E anche a parlar di farina, me ne guarderei bene per il momento…”.L’agente della narcotici Thompson si era ormai abituato, a seguito delle innumerevoli visite presso lo studio del medico, alla curiosa peculiarità di quest’ultimo di ritrovarsi costantemente cosparso di farina: i capelli ne erano sempre intrisi, mentre quantità più o meno modeste a seconda dei giorni erano solite spargersi dal bianco camice con il quale, se vi fossero rimaste su, avrebbero stipulato un interessante mimetismo… Quando un giorno, oramai che vi era più confidenza tra i due, l’agente pensò di chiedere spiegazioni circa il frumentario fenomeno, ne ottenne una piacevole confidenza circa le abitudini alimentari dell’esimio: non molto lontano dallo studio, infatti, vi era la bottega di Elvira, una giovane pizzettara italiana, che aveva fatto relativamente fortuna lì negli States, grazie alla sua folkloristica maestria gastronomica; era lì quindi, per motivi di praticità, nonché di buon gusto, che il dottor Moore era solito recarsi quotidianamente per il pranzo, riportando poi con sé, sotto forma di farina, i residui di quell’anfratto di bella Italia…

L’agente Thompson fu però lasciato all’oscuro dell’aspetto forse più importante – ma ovviamente più intimo e riservato… – della faccenda, il quale la diceva ancor più lunga circa le modalità d’assorbimento della bianca polvere, nonché riguardo ai gusti del nostro dottore, andando ben oltre quelli di carattere prettamente culinario… Questa seconda parte della storia ci rivela infatti che per quanto Moore fosse assiduo frequentatore della piccola sopraccitata bottega, lo fosse ancor più – e con maggior zelo – del relativo retrobottega, il che dovrebbe chiarirci qualcosa anche circa l’iden-tità di una di quei pochi eletti a potersi permettere di appellare il rispettabile dottore con il nomigno-lo di “Larry”...
Sembrava una democratica storia d’amore alla Sabrina, quella che puntualmente, all’orario di chiusura pomeridiana, si consumava nel retro del negozio tra il dottore e la pizzettara; anzi, lì – in mezzo a quell’elementare profumo di grano e pomodori, in quella grotta che nella tenue oscurità si sarebbe detta scavata nel tufo se solo si fosse per un attimo persa la concezione della futuristica metropoli che invece incombeva all’esterno – non avevano nemmeno più importanza classi sociali, lauree con titoli di studio, umili origini e trascorsi da immigrati… L’unica cosa vera era una passione che aveva la forma della farina selvaggiamente attaccata ai vestiti…

…Ovviamente finito l’amplesso, ’ste boiate da romanzo estivo non se le scende più nessuno.
Non è difficile immaginare il seguito: l’esimio dottore che se ne torna allegro allo studio dopo una sveltina con la sua geisha italiana e lei, povera illusa, che se ne resta con le pezze al sedere a impastare pizze… Ed era per questo che era venuta fin lì?... Sarebbe stato questo il suo Grande Sogno Americano?! Non si pensi che Elvira fosse la tipa ruffiana ed arrampicatrice da tenersi il dottore nella speranza di un futuro rendiconto economico e sociale, per carità, ma qui si trattava di pura dignità ed orgoglio personale: non si era mai aspettata alcun grande riscatto, ma ormai era semplicemente stufa di esser stata presa in giro così per tutto questo tempo… E il suo Larry era stato incredibilmente fesso – o forse solo scialbamente americano… – ad attirarsi addosso la vendicativa ira di un’italiana: donne fottutamente passionali, quelle…
Il giorno che l’agente Thompson portò Larry – pardon! - il dottor Moore al commissariato, i due si erano dati appuntamento allo studio per una visita nel primo pomeriggio – ovviamente Elvira era a conoscenza di ciò, e questo è bene tenerlo presente, affinché non si creda che tra i due amanti non vi fosse il minimo dialogo, nonché per l’importanza che avrà nella nostra storia… – praticamente subito dopo pranzo. Inutile precisare che, come sempre, il nostro si era già prontamente recato dalla sua bella; come sempre avevano consumato nel laboratorio della bottega; e come sempre c’era stato un gran spargersi di farina… L’unica cosa innovativa era che in quest’ultima, quel giorno, c’era qualcosa di diverso: una nuova ricetta ideata dalla bella Elvira… Il caso, o chi per lui, volle che ad accorgersi di tale variante non fu il diretto – e cosparso – interessato, bensì il suo paziente, il cui fiuto – e qui non parliamo di buon gusto, ma di mestiere… – notò qualcosa di stranamente stupefacente nella prima ondata di quella che doveva essere un’ormai consueta serie di nevicate…

Al dottor Moore, nonché al ligio – per quanto suo oramai affezionato paziente – agente Thompson, non parve vero quando giunse il verdetto della scientifica: la storia del medico e della farina, da quella buffa ma piacevole singolarità qual era nata, si accingeva a degenerare…
Il giorno dopo, i giornali avrebbero parlato dell’esimio professore, venerandissimo dottore, arrestato per uso e possesso di cocaina; l’agente della narcotici Thompson sarebbe stato elogiato per la maestria con cui avesse affrontato la faccenda malgrado il rapporto professionale ed umano che lo legasse al suo curatore. Ai piani bassi, una bella e vendicativa pizzettara avrebbe reagito con un sinistro e compiaciuto sorriso nel leggere la notizia; poi avrebbe accartocciato il giornale e lo avrebbe usato per alimentare il forno…

Joke penalty

“Quella dannata metro è in ritardo” pensò. Ma a dire il vero, poco importava.
“Accidenti, farò tardi all’università”. Ma in effetti non era tanto grave…
Dopo una ventina di minuti di imprecazioni da scandalizzare tutti gli altri aspiranti viaggiatori nella stazione e bestemmie da far grattare le palle al Padre Eterno, il treno arrivò stridendo. Era ora.
Entrò e si sistemò affianco alla porta che sapeva sarebbe rimasta chiusa fino alla sua fermata e dove nessuno gli avrebbe dato fastidio con insistenti “Scende alla prossima?” e nessun vecchio avrebbe elemosinato il posto. Cercò con lo sguardo qualche altro collega (universitario? Ma no, ritardatario!) o qualsiasi altro conoscente con cui chiacchierare, o qualunque altra cosa catturasse la sua attenzione e lo distraesse durante la corsa… Per il momento niente in vista, ma del resto non era un problema, dato che i suoi progetti per dopo le lezioni erano motivo d’evasione più che sufficiente… Tuttavia, quando alla fermata successiva il vagone si iniziò a svuotare, lo notò: il tizio col giornale. Per eccellenza, la prima fonte d’informazione quotidiana sulle ultime novità nel mondo…! In prima pagina: “L’Italia dice no alla pena di morte”.
“Che fesseria”, pensò. “Quanto buonismo”, si disse, col cinismo e il disincanto a cui i tanti mostri, assassini, psicopatici e preti pedofili rimasti impuniti lo avevano portato… Con un sistema giudiziario ridotto a una barzelletta, come ci si poteva meravigliare che le cose andassero così di merda?…
Ma fu un pensiero che a fatica sopravvisse alla quarta fermata, perché, in fin dei conti, diciamocelo, ma che gliene fregava davvero?? I problemi di un paese allo sfacelo erano così futili e sembravano tanto distanti di fronte al pensiero che presto avrebbe visto lei…
“Lei” l’aveva conosciuta all’Accademia, frequentavano lo stesso corso di grafica e in nome di Dio, era davvero stupenda! Spiccava in maniera impareggiabile tra le mezze alternative figlie di papà che solitamente caratterizzavano quell’ambiente e lui non era, com’è ovvio a dirsi, il solo ad essersene accorto: doveva puntualmente scontrarsi con i vari artisti scapestrati che accorrevano a lei, anche loro innamorati persi o forse semplicemente incuriositi da cotanta novità, di questa alternativa semplicità tra l’alternativo conformismo di sempre… Da un po’ di tempo era incredibilmente riuscito a trovare un punto di contatto e quel giorno aveva finalmente trovato il fegato di tentare un approccio più diretto. Chiedere il numero, un appuntamento, cose così insomma: le più difficili. Ma in ogni caso, quel giorno avrebbe soltanto dovuto seguire un paio di corsi in facoltà e poi di volata da lei all’Accademia, a realizzare i suoi sogni…
…Quando arrivò, l’aria gli si fermò nei polmoni e quando si decise a uscirne, il suo ritardo non aveva nulla da invidiare alla metro di quella mattina… Paonazzo in volto, increduli occhi sgranati, così appariva quando la vide tra le braccia di un altro; e non di un altro qualsiasi, ma di quello a cui fino all’altro giorno aveva confidato ciò che provava per lei, quello con cui si era sfogato per la propria incapacità di stabilire un contatto, quello che aveva finto di essere suo amico… Quando li vide baciarsi, seppe solo pensare che forse era meglio che lei se ne andasse, prima di agire: non voleva che lo vedesse così, non voleva apparirle come un mostro: ma in fondo sapeva già cosa fare…
Li vide salutarsi, seguì lui quando si allontanò e aspettò che voltasse l’angolo… “Giuda!” fu l’unica parola che si degnò di rivolgergli: un attimo dopo gli era addosso; il pestaggio fu alquanto breve, gli premeva relativamente poco di vederlo sofferente e sanguinante: gli serviva altro per sentirsi appagato, era un’altra la vendetta di cui aveva bisogno; trattandosi di un corso di grafica, una matita, il suo fedele portamine, gli sembrò lo strumento più adatto; fu a questo che pensò quando gliela piantò nella giugulare.
Il seguito ce lo si può immaginare, lo abbiamo visto tante vote sul giornale o al Tg Com…
Non era capace di intendere e di volere, Vostro Onore, la vista del suo amico che lo tradiva dev’essere stata shockante, Vostra Grazia, del resto, capirà, sono ragazzi, Signor Giudice, non c’è bisogno di essere severi, è una generazione di sbandati, non hanno modelli e del resto è anche colpa nostra, con la società che gli offriamo, si tratta di prodotti che noi stessi creiamo e poi, Vossignoria Illustrissima, l’ergastolo, così giovane, con una vita davanti, ma mi sembra eccessivo, per carità, al massimo 16 anni, che se pensiamo che presto libereranno il signor Manson, allora, per par condicio, diverranno una decina, al massimo 4 con l’indulto, che se poi apriamo i nostri cuori e pensiamo che in fondo l’ha fatto per amore…
Della prigione non vide neanche l’ombra, anzi, finito il processo trovò uno sponsor che gli permise di pubblicare un libro e addirittura, “lei” finì anche per sposarlo, del tutto rapita, conquistata, dal suo gesto di amore estremo…
Che buffo, si disse quando in seguito si ritrovò a pensare quanto perfetta fosse diventata la sua vita… Proprio quella fatidica mattina era stato così fascista da ritenersi favorevole alla pena di morte… Pensa se gli avessero dato retta…!!!